La situazione che stiamo vivendo costituisce un attacco frontale alla nostra esistenza su più fronti e ci spinge individualmente e, talvolta, collettivamente a riflettere sui meccanismi di controllo messi in atto, sull’effetto della repressione sulla nostra quotidianità e sull’impatto a breve e lungo termine che tutto questo avrà sulle nostre reti.
Sin dall’inizio dell’emergenza, si sono moltiplicati i contributi, le riflessioni e le analisi sul tema COVID-19, e come collettivo antipsichiatrico abbiamo sentito l’esigenza di confrontarci, interrogandoci sul contributo che ci interessava apportare alla discussione in corso. Ci siamo resx conto che, come spesso accade, anche nelle analisi che reputiamo più valide e condivisibili, manca un pezzo importante di ragionamento (fatte alcune eccezioni, vedi https://educattivi.noblogs.org/post/2020/04/02/corona-virus-ordinanze-e-marginalita/; https://artaudpisa.noblogs.org/post/2020/04/01/link-a-intervista-su-radio-blackout-la-psichiatria-ai-tempi-del-covid-19/):
come stanno e dove sono le persone psichiatrizzate?
Rispondere a questa domanda non è importante solo per capire materialmente le condizioni di vita di queste persone in una fase di impoverimento del contatto e delle relazioni, ma anche per aggiungere un elemento di analisi dei dispositivi di repressione e controllo che si stanno articolando in questo periodo.
Eppure, di salute mentale si sta parlando, anche più del solito, nei mezzi di informazione. Ma la salute di chi? A che fine? Da un lato c’è la psicologia prêt-à-porter, che si sostanzia di articoli, post, decaloghi su come prevenire l’ansia o la depressione, dispensando consigli e strategie per affrontare nel migliore dei modi la quarantena e l’isolamento sociale imposti. In pratica un modo per addolcire la pillola, cullandoci nell’illusione di un bene superiore che ci unisce come comunità: la salute pubblica. I servizi di supporto psicologico, nati anche comprensibilmente in questa fase, rischiano di alimentare questo meccanismo, perché finalizzati a contenere le diverse forme di disagio derivanti dalla situazione e a favorire l’accettazione dello stato di cose.
Dall’altro lato, si insiste spesso sulla pressione a cui è sottoposto il personale medico-sanitario che sta gestendo l’emergenza, che costituisce un importante fattore di rischio per il burnout e sembra aver portato in alcuni casi al suicidio. Anche in questo caso, forme di disagio che generalmente vengono invisibilizzate o contrastate perché disfunzionali alla macchina produttiva della società capitalista, trovano uno spazio nella narrazione perché strumentali ad alimentare una retorica di unità popolare.
Allo stesso modo, l’ipocondria e l’alienazione sociale, che generalmente vengono stigmatizzate, ridicolizzate e sminuite, sono ora incoraggiate perché funzionali a sostenere i meccanismi di sospetto, distanza e delazione verso chi “infrange le regole”. Ecco che la malattia mentale, quando serve, non è più un problema.
Ma torniamo alla domanda iniziale: che ne è di tutte quelle forme di disagio psichico che comunque è impossibile far rientrare in questa narrazione dominante? Ci sembra che i meccanismi di stigma e invisibilizzazione non siano affatto cambiati. Cosa sta succedendo realmente non lo sappiamo: le informazioni sono indirette, spesso giornalistiche e non c’è alcun dato ufficiale. Possiamo presupporre che i Trattamenti Sanitari Obbligatori (T.S.O.) stiano continuando come d’abitudine: il decreto-legge dell’8 marzo 2020 – che ha rinviato la maggior parte delle udienze nei procedimenti civili e penali – include le udienze di convalida dei T.S.O. da parte dei giudici tutelari tra i procedimenti che non vengono invece sospesi. Inoltre, alcuni articoli di giornale (https://www.nursetimes.org/quarantena-e-isolamento-mandano-in-tilt-gli-italiani-numero-di-tso-in-costante-aumento/83466/amp) parlano di un aumento dei T.S.O. in alcune città, come Torino.
È facile immaginare che il dispositivo del T.S.O., da sempre al servizio del mantenimento dell’ordine sociale, sia in questa fase complice del controllo capillare che si intende esercitare sui corpi che resistono: il 10 marzo è uscita la notizia di una donna di 78 anni che, col sostegno dei familiari, intendeva opporsi al ricovero presso il policlinico di Monza disposto per alcuni sintomi da lei presentati, che facevano pensare al contagio da COVID-19; le forze dell’ordine sono a quel punto intervenute e hanno effettuato un T.S.O. in attesa dell’esito del tampone (https://www.ilmessaggero.it/salute/storie/coronavirus_rifiuta_ricovero_ospedale_monza_tso_ultime_notizie-5102818.html).
Le telecamere dei telegiornali ci portano ogni giorno nei reparti di terapia intensiva, scavando nel vissuto dei pazienti per allertare la popolazione. Nelle ultime settimane si è iniziato a dare attenzione anche alla situazione critica delle Residenze Sanitarie Assistenziali (R.S.A.) che all’inizio dell’emergenza sono state trattate come depositi di vite di scarto (le persone anziane) dove scaricare parte dei pazienti che le terapie intensive non riuscivano più a ospitare. Sui reparti psichiatrici invece continua a regnare il silenzio: come vengono tutelati i pazienti? E il personale che ci entra in contatto? Le persone esterne hanno diritto di visita? Parte del personale medico sta iniziando a chiedere l’adozione di linee guida nazionali in merito per evitare un “nuovo caso R.S.A.” (http://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=83473).
Ci preme infine sottolineare che la retorica del #iorestoacasa, che esalta gli aspetti romantici e privilegiati dell’isolamento, non tiene conto delle oppressioni di genere, classe e salute. Chi vive situazioni di violenza domestica, non può restare a casa serenamente. Chi non può permettersi il lusso di godersi il tempo libero della quarantena, non può restare a casa perché deve uscire a lavorare. Chi vive una situazione di disagio psichico non può essere costretto a fare affidamento solo sulla famiglia / conviventi e privarsi totalmente delle reti di supporto, cura e condivisione, che sono spesso l’unica strategia di resistenza in un mondo stigmatizzante e mattofobico.
Ci raccontano che facciamo tuttx parte di una grande comunità che lotta insieme contro un nemico, il virus. Noi vogliamo invece ricordare che, al di là di ogni retorica, ci sono vite che continuano a non valere, vite che continuano a essere di scarto, invisibili, ribelli, che non si identificano in questa comunità nazionalpopolare. Noi ci sentiamo di farne parte.
SENZANUMERO – Collettivo Antipsichiatrico